Un uomo trascina un corpo nel deserto. Ma quel corpo non è ancora un cadavere. La testa si muove lateralmente. Continuamente. Come a voler compensare l'assenza del verbo. Quell'uomo si erge su quel corpo, accanendosi sul volto. Ripetutamente.
New Mexico. William Garnett (Forest Whitaker) è un uomo libero. Finalmente esce da quel carcere con il cuore pieno di speranze e della fede nell'islam. Ha scontato 18 dei 21 anni a cui è stato condannato per l'assassinio di un vicesceriffo. Ora lo attendono tre anni di libertà vigilata sotto il controllo di Emily Smith (Brenda Blethyn), il suo agente di custodia.
La libertà vigilata non è una vera e propria libertà, ma comprare una moto e vagare nel bel mezzo del deserto aiuta almeno a sentirsi liberi. La velocità. L'immensità della natura. Il vento che quasi ti stira il volto, disegnandoti finalmente un sorriso sulle labbra.
Anche il nuovo lavoro alla fattoria vicino il confine può aiutare a mantenere il sorriso che finalmente è apparso su quel viso dopo così tanto tempo.
Ma per lo sceriffo Bill Agati (Harvey Keitel) riplasmare quelle labbra è solo un gioca da ragazzi. E' stato proprio il suo vice la vittima di Garnett. Venti anni fa, ma per lui la ferita è ancora aperta.
Sarà un duello lento, quasi di trincea. Per Garnett ogni conquista sociale è un mattone per trasformare quella trincea in un muro. In una casa.
Emily Smith e Bill Agati sono due figure contrapposte. Entrambi vengono come divorati da ciò che il lavoro innalza ai loro occhi. La morte e la sofferenza ritornano continuamente nei loro sguardi. Che sia la morte di una famiglia di messicani che cerca di oltrepassare il confine, o che sia quella di un anziano che attende la fine della libertà vigilata per poter rivedere i propri figli, loro sono percorsi da quelle emozioni. Come ferri roventi vengono plasmati da tali visioni, ognuno a suo modo. Smith ha la speranza di poter dare la propria fiducia a quegli uomini che possono ricominciare a vivere, che possono rinascere. Agati no, per lui la legge è troppo misericordiosa con questi individui. La legge stende troppi tappeti rossi. Lui ha bisogno di qualcuno che racchiuda il male che è costretto a vedere ogni giorno. Lui ha bisogno di Garnett.
Rachid Bouchareb è un regista francese, di origini algerine, che ha sempre volto il suo sguardo verso i problemi dell'immigrazione e degli esclusi, basta pensare allo splendido "Uomini senza legge" (Hors-la-loi) del 2010. In "Two Men in Town" reinterpreta il film "Due contro la città" (Deux Hommes dans la ville) di José Giovanni, con Jean Gabin e Alain Delon. Bouchareb incastona il dramma al confine del New Mexico, trasformandolo in un western contemporaneo. Numerosissimi sono i riferimenti al genere, rappresentati principalmente dal conflitto tra l'ex-fuorilegge e lo sceriffo. I due antagonisti muovono i loro passi all'interno di uno spazio infinito e splendido, ma che diviene quasi soffocante e claustrofobico grazie a quel senso di oppressione e angoscia, grazie all'ansia per l'attesa di uno scontro sempre più imminente. A ciò si lega la sfida, la lotta interiore verso un istinto che cerca di riemergere, di dominare nuovamente. Un istinto di morte e di odio quasi endemico.
Contemporaneità western che si manifesta anche con quel lavoro da moderno cowboy alla fattoria, in cui Garnett dovrà badare a duecento bovini. Contemporaneità western che trasforma un mustang in una triumph vintage.
Abbiamo detto che Bouchareb trasla il senso di "diversità" nelle sue opere. Diversità che estremizza ancor più attraverso il protagonista del film. William Garnett è un paria. Essere un afroamericano nel New Mexico non è facile, non è facile esserlo in molti Stati ex-confederati, ce lo mostrano i notiziari degli ultimi giorni attraverso quelle bandiere che sventolano con la forza di un anatema. Ma Garnet, oltre che a essere un ex-galeotto e un ammazza sbirri, è anche un musulmano. Per molti un nemico non solo del vecchio sud, ma di tutti gli Stati Uniti, un nemico della democrazia, dei sacri valori dell'America...
Bouchareb dimostra che è possibile creare western contemporanei guardando avanti, senza ghettizzarsi unicamente in virtuosismi accademici. Certo, anche "Two Men in Town" gioca con schemi un po' prefabbricati e non raggiunge di certo il livello di "Non è un paese per vecchi", ma non condivido alcune critiche lette in rete. Molte sono dirette contro il velo posto sull'origine di alcune importanti caratteristiche dei personaggi secondari, come la sensibilità dello sceriffo verso gli immigrati messicani, o la decisione dell'agente Smith di trasferirsi nel New Mexico da Chicago. Penso che questa decisione induca un aumento della fruizione "attiva" dello spettatore, incentivando la ricerca di possibili indizi illuminanti. Non credo comunque nella vivisezione di tutti i personaggi, la strada intrapresa da Bouchareb risulta più realista e in linea con il film. Le cause degli atteggiamenti rimangono oscure anche in persone con cui interagiamo ogni giorno. Non tutto deve essere sempre sottoposto ad un lavoro di psicoanalisi o sociologia da quattro soldi.
Yves Cape tinge magicamente il paesaggio del New Mexico. Esso appare spesso con una funzione quasi di intervallo introspettivo, mirante ad intensificare il nostro rapporto empatico con Garnet. Egli interagisce continuamente con esso. Il paesaggio è come se fosse una manifestazione divina, come se rappresentasse un premio, una meta frutto di un evoluzione spirituale superiore. E' come se Garnett fosse un moderno Giobbe, percosso dalla stessa volontà divina. Come se fosse un germoglio nella lotta per emergere dalla terra.
Sarà un duello lento, quasi di trincea. Per Garnett ogni conquista sociale è un mattone per trasformare quella trincea in un muro. In una casa.
Emily Smith e Bill Agati sono due figure contrapposte. Entrambi vengono come divorati da ciò che il lavoro innalza ai loro occhi. La morte e la sofferenza ritornano continuamente nei loro sguardi. Che sia la morte di una famiglia di messicani che cerca di oltrepassare il confine, o che sia quella di un anziano che attende la fine della libertà vigilata per poter rivedere i propri figli, loro sono percorsi da quelle emozioni. Come ferri roventi vengono plasmati da tali visioni, ognuno a suo modo. Smith ha la speranza di poter dare la propria fiducia a quegli uomini che possono ricominciare a vivere, che possono rinascere. Agati no, per lui la legge è troppo misericordiosa con questi individui. La legge stende troppi tappeti rossi. Lui ha bisogno di qualcuno che racchiuda il male che è costretto a vedere ogni giorno. Lui ha bisogno di Garnett.
Rachid Bouchareb è un regista francese, di origini algerine, che ha sempre volto il suo sguardo verso i problemi dell'immigrazione e degli esclusi, basta pensare allo splendido "Uomini senza legge" (Hors-la-loi) del 2010. In "Two Men in Town" reinterpreta il film "Due contro la città" (Deux Hommes dans la ville) di José Giovanni, con Jean Gabin e Alain Delon. Bouchareb incastona il dramma al confine del New Mexico, trasformandolo in un western contemporaneo. Numerosissimi sono i riferimenti al genere, rappresentati principalmente dal conflitto tra l'ex-fuorilegge e lo sceriffo. I due antagonisti muovono i loro passi all'interno di uno spazio infinito e splendido, ma che diviene quasi soffocante e claustrofobico grazie a quel senso di oppressione e angoscia, grazie all'ansia per l'attesa di uno scontro sempre più imminente. A ciò si lega la sfida, la lotta interiore verso un istinto che cerca di riemergere, di dominare nuovamente. Un istinto di morte e di odio quasi endemico.
Contemporaneità western che si manifesta anche con quel lavoro da moderno cowboy alla fattoria, in cui Garnett dovrà badare a duecento bovini. Contemporaneità western che trasforma un mustang in una triumph vintage.
Bouchareb dimostra che è possibile creare western contemporanei guardando avanti, senza ghettizzarsi unicamente in virtuosismi accademici. Certo, anche "Two Men in Town" gioca con schemi un po' prefabbricati e non raggiunge di certo il livello di "Non è un paese per vecchi", ma non condivido alcune critiche lette in rete. Molte sono dirette contro il velo posto sull'origine di alcune importanti caratteristiche dei personaggi secondari, come la sensibilità dello sceriffo verso gli immigrati messicani, o la decisione dell'agente Smith di trasferirsi nel New Mexico da Chicago. Penso che questa decisione induca un aumento della fruizione "attiva" dello spettatore, incentivando la ricerca di possibili indizi illuminanti. Non credo comunque nella vivisezione di tutti i personaggi, la strada intrapresa da Bouchareb risulta più realista e in linea con il film. Le cause degli atteggiamenti rimangono oscure anche in persone con cui interagiamo ogni giorno. Non tutto deve essere sempre sottoposto ad un lavoro di psicoanalisi o sociologia da quattro soldi.
Yves Cape tinge magicamente il paesaggio del New Mexico. Esso appare spesso con una funzione quasi di intervallo introspettivo, mirante ad intensificare il nostro rapporto empatico con Garnet. Egli interagisce continuamente con esso. Il paesaggio è come se fosse una manifestazione divina, come se rappresentasse un premio, una meta frutto di un evoluzione spirituale superiore. E' come se Garnett fosse un moderno Giobbe, percosso dalla stessa volontà divina. Come se fosse un germoglio nella lotta per emergere dalla terra.
2 commenti:
Questo mi sa tanto di film spettacolare! Grazie della dritta ;-)
Veramente un bel film, e alla fine spiazza parecchio. Grazie a te Lucius ;)
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