Un calesse viene condotto su una strada sterrata circondata da un'arida
solitudine. Due uomini sono in agguato e costringono, con l'uso delle
armi, il povero conducente all'immobilità.
Purtroppo,
colui che è costretto sin dalla nascita a chinare il capo innanzi al
padrone, non può accettare di farlo innanzi a un pezzente suo pari,
anche se questi è armato di fucile. Durante la colluttazione, egli riesce
a vedere il volto di uno dei bambini. Ciò sarà la sua condanna a morte.
Quella
condanna evapora dal corpo del defunto per depositarsi su coloro che
gli hanno inflitto la morte. Le terre di quel luogo, sono sotto il
controllo di Massaro Passalacqua (Charles Vanel), la cui protezione aleggia sul barone
Lo Vasto (Camillo Mastrocinque), padrone di quel corpo ormai senza vita, ma soprattutto sulle
due mule sottratte dai banditi.
Passalacqua deve muoversi in fretta, per punire coloro che hanno osato sfidarlo proprio nel momento in cui il nuovo pretore, Guido Schiavi (Massimo Girotti),deve giungere a Capodarso. La gente deve capire chi può tutelarli realmente. Quel qualcuno è lui, non certo la legge ordinaria col suo giovane pretore.
Capodarso è circondata da terra arida, bruciata come la terra del deserto. Simile a quei villaggi del vecchio West, in cui il potere centrale risulta troppo distante. Troppo flebile rispetto a quello locale dell'uomo solo. C'è il tufo a Capodarso, non il legno dei classici edifici del west. Ci sono le capre, non ci sono le vacche con i loro cowboy. C'è la povertà a Capodarso, come quella dei villaggi sorti su una speranza. Una speranza crollata più velocemente rispetto agli edifici, i quali permettono ad anime morte di viverci e di muoversi. Anime morte che guardano fisso lo straniero, ma soprattutto la vita che arde ancora in lui, come dei vampiri affamati e invidiosi della gioia di vivere e dell'altrui speranza.
Emancipazione che osserveremo negli occhi splendenti del maresciallo Grifò (Saro Urzì), che osservano il pretore come se fosse il Messia in persona, venuto finalmente a liberare quel popolo oppresso.
La prima prova di forza, tra Schiavi e Passalacqua, è durante l'udienza di apertura delle attività
del nuovo pretore. La gente scalpita, urla, ma l'autorevolezza del
pretore li frena, anche se in senso quasi paterno, visto che cominciano
ad aprirsi, a chiedere. Come chiedono per la miniera, acquistata dal barone ma
chiusa, nonostante un decreto che chiede l'esecuzione di un sopralluogo
giudiziario Sopralluogo a cui si presenta anche Massaro Passalacqua, insieme ai suoi uomini di fiducia, che osservano dalle alture, sul
dorso dei loro cavalli.
Oltre alle armi, esposte come oggetti comuni con cui muoversi liberamente, anche i bar tessono un legame con il western. Come i saloon, questi diventano palco di sfide, ma anche covi dove ricevere informazioni.
La stessa fotografia ricalca il genere d'oltreoceano, con la sua capacità di esaltare il viso e i corpi tesi nell'azione di reprimere la propria emotività.
"In nome della legge", tratto dall'autobiografia del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, è un capolavoro che si distacca dal flusso seguito dalla maggior parte delle opere del neorealismo. Come sempre, Germi riesce a dividere le opinioni del suo pubblico, soprattutto per un finale capace di sconvolgere i fautori della legalità e gli stessi mafiosi.
Passalacqua deve muoversi in fretta, per punire coloro che hanno osato sfidarlo proprio nel momento in cui il nuovo pretore, Guido Schiavi (Massimo Girotti),deve giungere a Capodarso. La gente deve capire chi può tutelarli realmente. Quel qualcuno è lui, non certo la legge ordinaria col suo giovane pretore.
Le
connessioni, tra il film neorealista e il western americano, sono palesi
sin dall'inizio. Il film si apre con un paesaggio che sembra rubato a un
film di Ford e al suolo dello Utah. La voce fuori campo presenta la
Sicilia come una terra di contrasti, giardino di agrumeti da un lato e
dall'altro la tragica aspra bellezza di un mondo misterioso. Proprio come il
vecchio West.
Contrasti,
tra fertilità e aridità, che si manifestano con la rapina ai danni del
contadino sul calesse, da parte dei banditi con i fazzoletti che coprono
i volti scolpiti dalla sofferenza, dalla rabbia e dal sole. Sole che
rende arida la terra e quel corpo insanguinato non appena le dona il suo
sangue.
Altro
elemento è il potere consolidatosi in una determinata area, in mano a
un unico uomo, e l'uomo di legge, o il giusto, che giunge in quella
terra sottomessa. Lo Shane per intenderci.
L'arrivo
in treno del pretore, in una stazione semi deserta con la luce che
brucia quasi la pellicola, e il suo ruotare quasi su se stesso, per
osservare i pochi presenti come per studiarne la volontà, sembra una di quelle
scene che diventeranno famose nei film di Leone, ma che già furono di
Zinnemann. Un uomo lo chiama per nome. Lo deride
quasi, per l'abito indossato in una giornata così calda, ma
soprattutto per il suo essere lì. Gli consiglia di prendere il treno per
Palermo. Di tornare a casa per chiedere il trasferimento o magari per
cambiare mestiere. Quell'uomo è come un miraggio, sfumato tra un diavolo
e un grillo parlante. Un ibrido che accoglie con gioia l'arrivo del
treno per il capoluogo. Sorridendo prima di sparire.
Sorridendo per la felicità di aver finalmente abbandonato quella città e il
suo vecchio ruolo di pretore.
Capodarso è circondata da terra arida, bruciata come la terra del deserto. Simile a quei villaggi del vecchio West, in cui il potere centrale risulta troppo distante. Troppo flebile rispetto a quello locale dell'uomo solo. C'è il tufo a Capodarso, non il legno dei classici edifici del west. Ci sono le capre, non ci sono le vacche con i loro cowboy. C'è la povertà a Capodarso, come quella dei villaggi sorti su una speranza. Una speranza crollata più velocemente rispetto agli edifici, i quali permettono ad anime morte di viverci e di muoversi. Anime morte che guardano fisso lo straniero, ma soprattutto la vita che arde ancora in lui, come dei vampiri affamati e invidiosi della gioia di vivere e dell'altrui speranza.
Gioia
e speranza che la tradizione e la consuetudine hanno bruciato.
La consuetudine. Così il proprietario dell'alloggio del Pretore definisce la
mafia. Cultura, elemento di appartenenza e identificazione. Collante
delle genti, come una dittatura capace di frenare possibili moti
tribali.
La gogna, di uno dei colpevoli, si manifesterà proprio con la ritualità del western. L'entrata nel bar/saloon, le insinuazioni e in fine l'uscita in strada, dove l'agorà diviene conferma del potere del singolo e non del popolo.
Quando il pretore si reca a casa di un moribondo, vittima di una gravissima ferita da arma da fuoco, osserviamo una serie di immagini in cui si condensa l'ostilità verso il pretore. Lo straniero. L'immagine rappresentativa di questa opposizione silente, è la figura in controluce che appare sull'uscio di casa, la cui presenza scioglie la confessione del moribondo ancor prima di essere stata pronunciata.
Quella figura morente, stesa sul letto e circondata da una pluralità di Maddalene, è uno dei Cristi del neorealismo, con il suo vissuto di miseria e di dolore, sfociato poi in un atto rivoluzionario, non conforme a quello costituito all'interno dell'ideologia stagnante del partito. Un atto di rivalsa individuale e anarchico, nella sua ribellione solitaria al potere criminale ed economico di quella terra. Un rivoluzionario nel senso naturalistico del termine, vergato quasi da Zola nella sua autodistruzione antisociale. Una sindone sul cammino dell'autodeterminazione e dell'emancipazione.
La gogna, di uno dei colpevoli, si manifesterà proprio con la ritualità del western. L'entrata nel bar/saloon, le insinuazioni e in fine l'uscita in strada, dove l'agorà diviene conferma del potere del singolo e non del popolo.
Quando il pretore si reca a casa di un moribondo, vittima di una gravissima ferita da arma da fuoco, osserviamo una serie di immagini in cui si condensa l'ostilità verso il pretore. Lo straniero. L'immagine rappresentativa di questa opposizione silente, è la figura in controluce che appare sull'uscio di casa, la cui presenza scioglie la confessione del moribondo ancor prima di essere stata pronunciata.
Quella figura morente, stesa sul letto e circondata da una pluralità di Maddalene, è uno dei Cristi del neorealismo, con il suo vissuto di miseria e di dolore, sfociato poi in un atto rivoluzionario, non conforme a quello costituito all'interno dell'ideologia stagnante del partito. Un atto di rivalsa individuale e anarchico, nella sua ribellione solitaria al potere criminale ed economico di quella terra. Un rivoluzionario nel senso naturalistico del termine, vergato quasi da Zola nella sua autodistruzione antisociale. Una sindone sul cammino dell'autodeterminazione e dell'emancipazione.
Emancipazione che osserveremo negli occhi splendenti del maresciallo Grifò (Saro Urzì), che osservano il pretore come se fosse il Messia in persona, venuto finalmente a liberare quel popolo oppresso.
Oltre alle armi, esposte come oggetti comuni con cui muoversi liberamente, anche i bar tessono un legame con il western. Come i saloon, questi diventano palco di sfide, ma anche covi dove ricevere informazioni.
La stessa fotografia ricalca il genere d'oltreoceano, con la sua capacità di esaltare il viso e i corpi tesi nell'azione di reprimere la propria emotività.
"In nome della legge", tratto dall'autobiografia del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, è un capolavoro che si distacca dal flusso seguito dalla maggior parte delle opere del neorealismo. Come sempre, Germi riesce a dividere le opinioni del suo pubblico, soprattutto per un finale capace di sconvolgere i fautori della legalità e gli stessi mafiosi.
7 commenti:
Aaaaah ma allora provochi, già con l'altro mi hai "costretto" a fare un post sulle attinenze tra Italia e far west, e ora di nuovo hahahahaha, scherzi a parte, bello anche questo. Germi è forse il più "americano" tra i registi del dopoguerra, motivo per cui la sua visione cinematografica fu molto osteggiata dalla critica della sinistra di allora.
E dire che Shane e altre figure western mitiche citate sarebbero venute qualche anno dopo nei film americani.
@Massimiliano Grazie Mille Massimiliano!!!:) Germi era un po' come il Verga, capace di mostrare il popolo in tutte le sue sfaccettature. Senza miti e falsi feticci. I proletari tutti fabbrica, casa e partito erano un'utopia che la sinistra ha faticato ad abbandonare.
@Gioacchino Verissimo Gioacchino! Oltre a Leone e Zinnemann, potremmo mettere anche Delmer Daves. Perfino le inquadrature anticipano non solo Leone ma anche i registi americani. Per non parlare della composizione, con quello stallo alla messicana in versione psichica che ho inserito alla fine.
Grazie a te Ivano. Al giorno d'oggi sembrano sciocchezze, ma tu pensa un epoca caratterizzata dall'afflato collettivistico di quel periodo di ricostruzione, materiale e morale (l'italia usciva da una guerra devastante), dove ti ritrovi un regista con una visione intimistica dei suoi personaggi, eroi solitari, scontro di valori, inquadrature di immobilità alienante... beh, grande cinema, grande precursore.
Verissimo! Germi è stato un precursore anche in senso sociale, essendosi accorto dei mutamenti interni alla classe operaia, ancor prima di alcuni teorici di partito. Lui ha spogliato la rude fornace rivoluzionaria, mettendo in luce il germoglio dei desideri piccoli borghesi.
Noooo ma questo è un capolavoro! Non conoscevo il film, quindi mi ha colpito ancora più forte il parallelo "neorealismo-western": sembrano davvero immagini uscite da uno dei film culto di Ford, invece è tutta roba nostra che abbiamo dimenticato. Questo ciclo è già un mito! ^_^
Grazie Mille Lucius!!! Il fine è anche quello di far riemergere alcuni capolavori dal dimenticatoio in cui l'arte italica è stata celata per troppo tempo. ;)
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