domenica 2 agosto 2015

"Jauja" di Lisandro Alonso. Il viaggio di Viggo Mortensen in una Patagonia fantastica e visionaria.






     Patagonia, 1882.Alcuni militari argentini sono accampati sulla costa argentina. I suoni della natura rimbombano con forza quasi intenti a urlare il possesso e il potere su quella terra. Mentre gli uomini sembrano voler imporre la loro presenza come sacrilego atto di ribellione. 
 Tra loro vi è Gunnar Dinesen (Viggo Mortensen), capitano danese, insieme a sua figlia Ingeborg (Viilbjørk Malling Agger). Anch'egli risucciato dalla cosidetta "Campagna del deserto", la conquista di un territorio quasi leggendario.
 I militari sono in attesa di raggiungere il forte del deserto. L'ufficale a comando del forte è Zuluaga, che ha la fama di essere un po' matto. Non che il  tenente Pittaluga (Adrián Fondari), a comando dei militari in attesa, sia proprio normale. Dopo essersi masturbato in una pozza creata dalla bassa marea, diserta con Dinesen sulla necessità che "chi si trovi al confine con il deserto" sia un solitario, niente mogli e figli, nessuna distrazione. Gli agi rammolliscono e debilitano. L'importante è avere un'idea fissa da portare a termine perché, come egli sostiene, ciò distingue l'uomo civile dai "cabeza de coco",  ovvero testa di cocco, come loro chiamano gli indigeni. Indigeni che non sono da capire ma da sterminare.
 Il  tenente Pittaluga è la reincarna del conquistadores spagnolo, non solo nella sua mentalità da predatore di terre e di culture, ma anche nella sua estetica.


 
 Dopo questa esposizione da "illumista", il tenente chiede al capitano di poter recarsi al ballo dell'indomani, organizzato  dal Ministro della Guerra, con sua figlia. Notando una certa riluttanza decide di mettere sul banco della trattativa un cavallo da regalare a Ingeborg. Dinesen, per chiudere il discorso, dice che ci penserà...
 Il suo raccomandare alla figlia di stare lontano da quel porco è una scena quasi comica, egli infervorato cerca di imporre il suo volere a una ragazzina che non capisce per quale motivo al mondo dovrebbe essere interessata a un tipo rozzo come quello.
 Ancor più sconvolgente per Dinesen è ascoltare la figlia parlare del deserto, come in risposta al suo affermare che presto torneranno in Danimarca.
<<Amo il deserto. Amo come mi riempie>>.




Già in questa scena vedremo la padronanza di Mortensen per un personaggio così diverso da i suo tipici ruoli. L'essere impacciato nel suo confrontarsi con l'altro. La sua consapevolezza di essere ora ospite e ora unico genitore. Il suo evitare lo scontro fino al momento in cui ciò sia indispensabile.




 Ingeborg è in realtà già innamorata di un ragazzo che ricambia i suoi sentimenti, il Corto. Ciò non sfugge al tenente, arso ancora dalla rabbia di essere stato trattato in tal modo dal capitano. Egli sfrutterà un mistero,che vola di bocca in bocca tra il personale dell'esercito, per compiere la sua vendetta. 





Come in tutte le opere di Lisandro Alonso, basta pensare a "La Libertad" e a  "Fantasma", la solitudine è la protagonista, velata o manifesta, del film.
In Jauja è un'immagine ricorrente. Potremmo suddividerlo in sequenze della solitudine. Solitudine intesa come abbandono o attesa, basta pensare all'immagine di Ingeborg che cerca di scorgere il Corto. Ogni scena termina infatti con un personaggio che resta solo, subendo o cercando l'isolamento. Essa diviene quindi il  cliffhanger di ogni sequenza.

 



"Jauja" è plasmato dalla successione di inquadrature a camera fissa su cui si svolgono i frammenti della trama, trasformando il film in una successione geografica di palcoscenici e sipari. Una scenografia itinerante germogliata intorno all'opera di Fabian Casas, che pare guardare al Beckett, e fotografata da Timo Salminen attraverso l'uso di una tavolozza magica, virante per il notturno sui colori intensi e contrastanti della diapositiva viva.





Spesso gli stessi dialoghi sembrano quasi una manifestazione di questa interazione con la solitudine. Un mezzo per legare l'altro o un fastidioso ronzio da evitare. Essi risultano quasi inutili. Seguendo la coppia di giovani nella loro fuga vedremo l'assenza di qualsiasi forma di comunicazione. Essa viene tentata dal Corto più come difesa pudica che non come un reale mezzo di conoscenza dell'altro. Conoscenza fino ad allora compiuta solo con gli sguardi.





Quel paesaggio infinito, proteso con il suo fascino da terra promessa, si trasformerà ben presto in un mondo selvaggio e quasi fantastico. Dinesen apparirà come un eroe mitologico, come il personaggio di uno sword and sorcery. Un Lancillotto alla ricerca di un'excalibur ancor più speciale e unica. Elementi del mondo fantastico si  presenteranno in maniera originale. Guide insolite, abitazioni strane, animali alieni in senso geografico,  discorsi ancora più assurdi dei precedenti e personaggi misteriosi.
 All'inizio sembrerà che nel deserto la crudeltà dell'uomo possa manifestarsi con tutto il suo essere. Che la pazzia di un colonnello Kurtz vi possa regnare e urlare con tutta la sua forza. Ma in realtà è il deserto che ha metabolizzato l'uomo. Mutandolo, cambiandolo. Perché il deserto divora ogni cosa.




2 commenti:

Lucius Etruscus ha detto...

Hai stanato davvero una gran chicca, complimenti!
Che voglia di partire per il deserto... ovviamente rimanendo in poltrona :-P

Ivano Satos ha detto...

Grazie Lucius! Un film veramente magnifico. Viggo riesce a rubarti l'anima e a trascinarla con lui in quel viaggio assurdo